“Dai, canaglia, ora basta così.”

L’altra sera mi è capitato di analizzare velocemente il concetto di nostalgia.

Cos’è? 

A cosa serve? 

Perché si presenta ad intervalli più o meno regolari per mettere scompiglio? 

Arriva di sua spontanea volontà o siamo noi ad andarla a richiamare? 

Siamo inoltre noi a non volerla lasciar andare o è lei a starci addosso con devozione e al contempo un po’ di sadismo?

Lei, la nostalgia, con me ha sempre avuto un rapporto conflittuale: un sacco di volte il mio inconscio si è lasciato intortare da una canzone, un dejà-vu, uno stupidissimo dettaglio ed è andato ad invitarla a casa senza chiedermi il permesso. E gli ospiti indesiderati, si sa, non è sempre facile mandarli via. 

Altre volte -devo ammetterlo- l’ho chiamata io, la nostalgia. Magari in preda alla noia o alla smania da pulizia (Marie Kondo con il suo “Magico potete del riordino” sarebbe fiera di me), talvolta in preda ad una momentanea insoddisfazione da presente, sta di fatto che l’ho cercata. Ed ogni volta è bastato un gesto di 10 secondi: sfogliare un vecchio diario di scuola, aprire una scatolina con svariati oggetti di quand’ero ragazzina, incappare in uno di quei malloppi di fotografie ingiallite che nessuno guarda più, ritrovare un vecchio vestito che ha ormai la taglia di qualcun altro.

Ora, io sono una persona tendenzialmente nostalgica e conosco gente più nostalgica di me, però c’è un limite a tutto: anche ai propri limiti. Mi spiego: se andare a riprendere un po’ di passato ci rende ottimisti circa il futuro, contenti di quel che è stato ma propositivi verso quel che verrà, allora benvenuta nostalgia. Ma lei sapeva già all’epoca di Albano-e-Romina-coppia-felice di essere quella canaglia là. Talmente canaglia da inibire l’autocontrollo in soggetti che non hanno ancoraggi abbastanza saldi alla loro vita attuale, così un banale e innocuo tuffo nel passato diventa una forma di autolesionismo puro: sto bene ora, quanto stavo bene prima?! Mi piace la vita che faccio, ma cosa darei per tornare indietro. Mi piaccio così, ma che fisico avevo a vent’anni?!! 

Il problema vero è che tra quei soggetti lì, ogni tanto ci finisco anch’io e conosco come le mie tasche il meccanismo che genera quei pensieri, allora alterno momenti di sana intelligenza in cui chiudo il diario e cambio attività (ma nel riporlo, lo saluto) a sprazzi di dipendenza da passato in cui pesto i piedi per non mollare un’idea di me ormai andata in pensione. Quale “me” giustifico? In verità entrambe, la più saggia ma anche la più bambina perché tutt’e due mi fanno tenerezza. E andata via la tenerezza cosa resta? Un po’ di buonsenso. 

Il tempo mi ha dato la possibilità di vedere come funziona davvero, donandomi proprio quel buonsenso che sta lì con le spalle larghe davanti alla mia nostalgia invadente, a dirle “dai, ora basta così”. Ho scoperto che la nostalgia fa così male alle volte perché è proprio quello il suo compito: è il dolore del ritorno, l’unione di due parole che dovrebbero essere di origine greca e che benissimo descrivono lo stato d’animo che portano. Ho scoperto piano piano che dolore porta dolore, così come una risata porta altre risate, sbadiglio porta sbadiglio e ho capito anche qualcosa in più di me e di come funziono io.

Funziono a ricordi, ne ho parlato anche in un altro articolo, però non tutti i ricordi portano “dolore del ritorno” e quelli di cui voglio alimentarmi desidero che siano innocui, voglio gestirli io (non senza fatica) per evitare che siano loro a gestire me buttandomi nello sconforto. È li che la nostalgia a volte prende piede e io cerco di bloccarla con quel briciolo di ragione che ho messo su coi denti del giudizio. 

Che poi lei, maledetta, è fatta di quel passato bello che non vorrei mai dimenticare e per questo è subdola, falsa, sembra volerti far del bene e invece è sadica e ti vuole portare giù giù ancora più giù. Laggiù dove metti in dubbio il tuo presente, il tuo lavoro, i tuoi risultati raggiunti con fatica, la tua metà, la tua forma fisica, i tuoi piccoli traguardi. 

La prenderei a pugni, fosse concreta. 

Ma concreta lo è, sapete? Si trova in quei malloppi ingialliti di foto, in quei diari, nelle scatoline piene di ricordi adolescenziali e nei vestiti che non vogliamo buttare sperando di rientrarci un giorno. 

Attenzione: a me piace ricordare i bei tempi ma mi conosco e mi fa -8 volte su 10- solamente male, perché se conservano dei rimpianti o dei rimorsi non possono che starmi stretti, togliendomi aria come un paio di pantaloni che stringe la pancia. Che poi duole, la pancia, spesso proprio per i ricordi… mai provato il brivido di un bel dolore psicosomatico? Che privilegio, quasi provo pena per voi che non somatizzate, non sapete cosa vi perdete! 

Mal di pancia a parte, questo è un blog di musica, come non citare l’album che mi rende più nostalgica in assoluto? Ho più di un disco che ha questo potere, almeno tre che sanno invitare in casa mia la nostalgia sapendo bene che cercherà di rimettere le radici, eccoli:

– “Echoes” dei Pink Floyd, 2001;

– “Outrospective” dei Faithless, 2001;

– “Writer’s block” di Peter Bjorn & John, 2006.

L’anno indicato è quello di release, la disposizione (anche in copertina) è invece casuale perché a me sono arrivati in anni diversi dalla pubblicazione. Tranne uno uscito proprio nell’anno incriminato, su cui però non mi soffermerò perché se no poi “lei” arriva e non me ne libero per due giorni. 

Sapete che c’è? C’è che, se riaprire quella scatola genera solo sospiri, beh forse è davvero meglio tenerla chiusa. Ci saranno senz’altro ricordi meno amari ma altrettanto belli da poterli lasciare liberi di scorrazzare in casa, senza la paura di inciamparci. Valorizzate quelli e vi arrederanno la vita… questa attuale però, non quella passata. 

Vi abbraccio, tutti.

Enza

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