La gratitudine, in due tempi.

Settembre 2017.

Nel 2009 Sophia Coppola gira uno dei miei film preferiti dal titolo “Marie Antoinette”, in cui una dolce Kirsten Dunst è la giovane sovrana francese, tra vizi ed eccessi. Un film dal ritmo lento dove lo sprint è dato da una sapiente e variopinta colonna sonora elettro-pop-indie. Due i dischi, uno più classico con note di Vivaldi e affini, l’altro più dark e scoppiettante. Vorrei parlare “dell’altro”, anzi di un gruppo che in quel cd compare 2 volte: The Radio Dept., ignari padri di questo mio blog e del suo nome.

4 gli album prodotti dal 2004 ad oggi, l’ultimo “Running out of love” ad ottobre 2016 dopo 6 anni dal precedente. E proprio l’ultimo nato voglio raccontare, arrivato quando ormai non ci speravo più.

Fin dal primo singolo dell’album sento un po’ di Technotronic, quelli che negli anni ’90 cantavano “Pump up the jam”. Passato il lieve stupore iniziale decido di non lasciarmi intimidire da questa vampata di novità, dalle mie impressioni prime, sempre opposte alle considerazioni ultime. Il resto del disco si riempie presto di quelli che erano i Radio Dept. all’epoca della struggente “It’s personal“, brano che al primo (e secondo-terzo-decimo-cinquantesimo) ascolto sembra composto dai Cure per via del lunghissimo intro di pianoforte, infatti basta ascoltare “Can’t be guilty ” ed ecco tornare prepotente il passato. “Occupied“, giovane nipote illegittima dei Daft Punk, porta trionfalmente a “Teach me to forget“: quella disco dance un po’ malinconica degli anni 90 quando la nostra più grande preoccupazione era riuscire ad entrare nella discoteca pomeridiana di quartiere, alla domenica. Posto da cui uscire con “We got game” che grazie a un allegro sintetizzatore porta dritti in una partita dell’Intellevision… chi se lo ricorda? Oh come mi sentivo ricca e felice quando ci giocavo con mia sorella.

Thieves of state” è un piccolo gioiello, brevissimo, timido, come tutte le cose dotate di un’incredibile non voluta bellezza.

In tutto questo ci ritrovo un po’ di Metronomy nel brano “This thing was bound to happen “, elettronico quanto basta per lasciare ai Radio Dept. la possibilità di dire: ci siamo anche rinnovati.

Dopo 6 anni dall’ultimo lavoro in studio di registrazione, non mi aspettavo quasi più queste accortezze nei suoni e nei testi da Johan e Martin (eh sì perché nascono come duo) anzi pensavo che il massimo l’avessero raggiunto con “Lesser Matters” del 2006, un album struggente e vivo in cui la fine di un amore viene fotografata da ogni prospettiva immaginabile: dall’inquietudine di “Slottet #2” all’energia di “Where damage isn’t already done“.

Il bello dei Radio Dept. è questa leggera malinconia che però non infastidisce, nel senso che sono ascoltabili anche se non sei necessariamente in una fase calante con il morale sotto i piedi. No, “Running out of love” come lo stesso best of “Passive aggressive” si ascoltano bene anche in casa mentre fai le pulizie o mentre studi, durante un lavoro di concetto in ufficio o una corsa nel parco.

Me la concedete adesso qualche riga per il papà di questo blog? Sì perché è anche colpa/merito dei Radio Dept. se adesso in treno scrivo, anziché leggere. Lì su uno dei 5 gradini nella mia top five dei migliori brani di sempre c’è “The worst taste in music ” che è più di quello che realmente vogliono farmi credere: è un cortometraggio, una storia di 2:54 minuti lunga giusto il tempo di guardare di nuovo negli occhi un sentimento, una sensazione viva e bruciante ancora dopo chissà quanto tempo (potete decidere voi il “cosa” e il “quanto”). Ancora oggi, se per caso parte questo pezzo nella mia lunghissima playlist, trasalisco: un breve sussulto e poi lo sguardo si apre, le spalle si alzano, il respiro si allarga… non saprei come altro spiegarvelo.

Sarà che da ragazzina mi sono scoperta casualmente attratta dalla musica iterativa e i Radio Dept. sono molto bravi a far rotolare un sample, un giro di chitarra o una breve melodia senza renderla monotona.

“Running out of love” porta alla luce, in verità ancora poca qui in Italia, quello che all’estero chiamano dream pop: voci sospirate, atmosfere oniriche quasi ipnotiche, echi, sussurri e chitarre distorte con estrema gentilezza. Anche se questo album ha qualcosa di più, quelle sonorità a cavallo tra gli anni 80 e 90 che già trovavamo in pezzi storici come “All about our love “: un po’ come trovarsi in una puntata di “Genitori in blue jeans” e ballare con Kirk Cameron in salotto.

Giugno 2018.

Riprendo da qui, mesi dopo la prima stesura, questo articolo che stava lì ad aspettare il momento giusto per farsi spazio. Riprendo da qui adesso, dopo un viaggio lunghissimo in cui i Radio Dept. hanno saputo accompagnare la mia amarezza per la perdita di una persona cara, i km notturni resi più dolci e leggeri mentre io e la mia malinconia facevamo a botte nella mia testa. Perché io sono una persona malinconica ma non vorrei esserlo, ecco cosa.

Ci sono alcuni pezzi di questo gruppo che sanno esattamente dove andarsi a mettere, con la maestria di un sarto che sa come piegare il risvolto senza che si sfilacci e cuce proprio dove serve, senza dare nell’occhio e lasciare segni. I Radio Dept. spesse volte si sono cuciti addosso alle mie emozioni come un abito che entra senza bisogno di aggiustamenti, perfetto come un guanto, come i pezzi di un puzzle che stanno ligi al loro posto.

L’altra notte, mentre cercavo di dormire nel mio scomodissimo sedile del pullman che con me attraversava l’Italia, mi sono imbattuta in “A token of gratitude ”, un brano del 2010 dall’album “Clinging to a scheme” che mi ha fatto pensare a quanto poco sono grata per quello che ho. Ci pensate mai? Io no, effettivamente mai. L’altra notte invece sì, mentre andavo a illudermi di poter dare coraggio ai miei cugini che perdevano la loro madre e a mia madre che perdeva sua sorella. Sono davvero poco grata, dovrei esserlo di più e dovrei chiamare più spesso, dire grazie più volte, dare un abbraccio in più anziché in meno. Avrei dovuto chiamarla più spesso mia zia, ma forse era più semplice andare via dal dolore che ascoltarlo nella sua voce. Ormai però è tardi, mi perdonerà, spero.

Non ho scritto per molti mesi perché ogni articolo che iniziavo a buttar giù finiva sempre troppo sul personale… e adesso? Davvero poco personali queste righe, direte voi…! Pero stavolta non mi censurerò, coloro i quali mi leggeranno volutamente sono quelli che pur conoscendomi continuano a cercare di conoscermi, sapendo che se mi apro scrivendo è perché un po’ a loro voglio arrivarci. Poi, se in mezzo a tutto questo c’e tanto della mia musica è perché senza questi album di cui parlo il mio mini-mondo sarebbe zitto e solo, un po’ vuoto e incolore. Io invece, anche quando nel mio mini-mondo c’è un buio soffocante perché magari in quel momento sto soffrendo, con brani come “Mad about the boy” e “On your side” ritorno a respirare, i polmoni si riaprono e l’aria è talmente piena di luce (che vedo solo io, come i matti) che il buio lo lascio agli altri.

Ma sia chiaro, qui c’è posto e luce anche per chi pensa che il mio sia un pessimo gusto musicale.

Enza

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