C’è una rondine agli arrivi.


Da che ho aperto questo blog mi sono accorta che, davvero involontariamente, mi sono ritrovata a scrivere in particolare di artisti italiani. In questi giorni ascolto Dimartino, un gruppo che prende il nome dal suo cantante Antonio Di Martino, siciliano anche lui – neanche a dirlo! – come alcuni tra i miei autori preferiti. (Tutto torna, l’utero di cui parlavo mentre raccontavo Colapesce – chi mi legge, sa). 
Di Martino ha questa leggera cadenza palermitana che lo rende tenero, si esprime in particolare con un pianoforte e una chitarra che lo fanno diventare potente alle mie corde sensibili, toccando dei punti fragili che non pensavo nemmeno di avere. O forse li avevo coperti, soffocandoli. 

Mi godo con Dimartino la meraviglia di scoprire dei testi che non vedo l’ora di imparare, di urlare al prossimo concerto liberatorio o al prossimo semaforo rosso in macchina. Testi perfetti per i volatori pindarici come me. Vorrei saper suonare per imparare gli accordi, ma mi accontento di gioirne nelle cuffie davanti alla signora in metro che legge il giornale, i ragazzini che scherzano con addosso degli zaini esasperatamente pesanti, il signorotto che va in ufficio con la sua 24 ore piena di scartoffie e pensieri. 

Avevo deciso inizialmente di ascoltare solo il penultimo album del 2012 dall’immemorizzabile titolo “Sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile”, sperando che mi prendesse. L’ha fatto in così poco tempo da essermi subito concessa un nuovo ascolto, l’ultimo “Un paese ci vuole” del 2015 che, nonostante sia molto melodico, ha quel “nonsoche” che riesco ad ascoltare senza sbuffare. Si perché davanti a pezzi struggenti ed eccessivamente urlati o vibrati tendo ad alzare gli occhi al cielo quasi infastidita… ebbene, i Dimartino non risultano mai melensi, scontati o al limite dell’attacco glicemico.

Tra i pezzi che mi arrivano maggiormente  “Maledetto autunno” e “Non siamo gli alberi” dall’album con quel titolo lunghissimo che non voglio ripetere. Meritano però anche “Come una guerra la primavera“, “Case stregate” e “Stati di grazia” dall’ultimo disco del 2015, oltre a un pezzo che risalta particolarmente nell’EP del 2014 “Non vengo più mamma” per la sua diversità: titolo del brano “Il corpo non esiste” ed è tutto fuorché real Dimartino. Ma mi piace un sacco, in quanto mosca bianca. 

Capisco che questo genere mi appartiene mentre scopro che Mario Venuti ha scelto Dimartino per aprire i suoi concerti, cantando alcuni pezzi che con la sua voce assumono una perfezione quasi insopportabile: un’esempio fra tutti è “Amore sociale” cantata a Catania nel 2013. Brividosa, per usare un neologismo estemporaneo. E se l’ha scelto Mario, non c’è storia.

Forse è il periodo ad essere fertile: mi sento attratta e piena di motivazione nei confronti di questo genere di musica, che ammetto di non ascoltare sempre, ma proprio la disillusione nei confronti degli autori italiani mi ha portato a gioire delle ultime scoperte nazionali. C’è del buono in Italia, certo che c’è. Da esterofila quale mi ritengo, sono felice di incrociare storie, talenti ed esperienze positive (anche se non necessariamente di successo).

Pensavo tra me e me: i Dimartino potrebbero anche essere usciti da un talent, un contest o un reality ed io non essermene accorta. E allora sarei doppiamente felice, perché vuol dire che c’è speranza anche in questi programmi da manuale. Certa però che, se piacciono a me, sicuramente li hanno fatti fuori alla seconda puntata. 

Nessun problema Antonio, io ti ascolto anche mentre nella mia stanza c’è silenzio.

Enza

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